Si inizia a esportare in tutta Italia il Modello Sardegna. I malati di Sla potranno scegliere di curarsi a casa Firmato il protocollo d’intesa con tre ministeri dopo il presidio a Roma La spunta il movimento guidato dal sardo. Usala: nell’isola funziona già così
L’umanità in barella ha vinto e ottenuto quello che voleva dallo Stato, ma un suo guerriero era pronto a morire lì, sul campo, sui sanpietrini: Andrea. Quando il vertice fra i tre ministeri e il Comitato 19 novembre, quello dei malati di Sla, era cominciato da un’ora, l’ex paracadutista romano, 35 anni, con un battito di ciglia, il resto è immobilizzato, ha fatto testamento.
Basta, «vuole che stacchi fili e batteria», ha detto il suo accompagnatore con un filo di voce e le lacrime già negli occhi. Andrea voleva morire, e in via XX Settembre è calato il gelo. Dalla sala riunioni del ministero all’Economia in molti sono usciti di corsa ma solo Mariangela Lamanna, la vicepresidente del Comitato, è riuscita a convincere Andrea a non farlo.
«Ti porto con me, dentro», gli ha detto con un sorriso, e lui con un altro battito di ciglia, meno duro del primo, si è abbandonato alla speranza. Speranza ripagata, dopo tre ore, il vertice si è chiuso con un protocollo d’intesa che «dà il diritto ai non autosufficienti di scegliere se farsi ricoverare nelle residenze sanitarie assistite, oppure continuare la terapia a casa». È quello che volevano i malati di Sla, così come accade in Sardegna, che sulla cosiddetta protezione domestica continua a dare punti a tutte le regioni, comprese quelle arroganti del Nord Italia.
È il modello che ieri, al ministero, è stato spiegato con dovizia di particolari dal consigliere regionale del Pd Marco Espa, uno dei padri del progetto «Ritornare a casa» che risale ai tempi dell’assessore alla Sanità Nerina Dirindin ed è stato rafforzato da chi c’è ora, Simona De Francisci. «Per me è stato un onore –è stata la dichiarazione del consigliere regionale – spiegare un modello vincente tutto sardo, costruito in dodici anni di lavoro e oggi sempre più vincente».
È lo stesso modello che da anni permette a Salvatore Usala, vive a Monserrato ed è il capo dei guerrieri, di essere assistito dalla moglie Graziella e da diversi volontari, La perfezione del progetto ha convinto i tre ministeri (Maria Cecilia Guerra, viceministro al Lavoro, Paolo Fadda e Pier Paolo Beretta, sottosegretari alla Salute e all’Economia) che «Ritornare a casa» può essere esportato nelle altre «filiere sociali e sanitarie» d’Italia.
Da oggi in poi, con la firma del protocollo nessuna regione potrà obbligare «il paziente ad essere ricoverato nelle residenze sanitarie» e «i finanziamenti per l’assistenza dovranno essere girati alle famiglie». È questa la vittoria di chi voleva morire in diretta, davanti alle telecamere schierate davanti a questa umanità in barella che ha una forza d’animo infinita. Qualche mese fa era stato proprio Salvatore Usala a minacciare di farla finita sempre sullo stesso selciato, ieri è stata la volta dell’ex paracadutista.
Il 5 novembre – è questa la seconda parte dell’accordo – sarà aperto anche il tavolo di confronto sui fondi destinati ai non autosufficienti e ai malati gravissimi. I tre ministeri hanno dato la loro disponibilità a trattare sull’ammontare del fondo (quest’anno intorno ai 240 milioni, ma negli ultimi due è stato più volte ritoccato al ribasso) per restituire ai guerrieri della Sla il diritto alla dignità. L’ultimo commento è stato dettato da Salvatore Usala, sempre con gli occhi che scorrono su una tavolozza di lettere: «Vigileremo per non essere fregati un’altra volta».